LETTERA DI
PAOLO AI FILIPPESI
La lettera
alla “chiesa” di Filippi (città della Macedonia), governata da un collegio di
episcopi e diaconi, Paolo la scrive durante una prigionia (forse nel carcere di
Efeso o di Cesarea, cfr. At 23,25, o di Roma). La carcerazione è il prezzo che
paga per il suo zelo nel propagandare la fede del Cristo Gesù, per il quale è
pronto anche a morire (teorizzazione del martirio per il trionfo della
fede). La data di composizione della lettera potrebbe oscillare tra
gli anni dal 54 al 62. Si tende ultimamente ad ammetterne l’autenticità, ma si
ritiene che sia una combinazione di più lettere scritte dall’apostolo in più
tempi. Dubbi si hanno riguardo all’inno sulla passione e glorificazione di
Cristo (2,5-11), che mostra una distinzione di Dio nelle due persone del Padre
e del Figlio.
L’apostolo
raggiunge la Macedonia durante il suo secondo viaggio missionario (anni 48-51),
sospinto da una visione del Signore (At 16,9). A Filippi si sofferma parecchi
giorni con Sila e Timoteo, riuscendo a creare la prima comunità di cristiani in
Europa, convertendo una certa Lidia e la sua famiglia. Paolo libera dal maligno
una schiava indovina. In seguito a un tumulto sono bastonati e incarcerati, ma
il sopraggiungere di un terremoto consente ai tre missionari di essere
liberati. Prima di lascare Filippi, convertono il carceriere (cfr. At 16,1
seg.) e la sua famiglia.
Paolo si
qualifica nella lettera servo (schiavo) di Cristo. Si apre ai Filippesi
esprimendo personali sentimenti, non questioni dottrinali o rimproveri.
Promette loro d’inviare il valente collaboratore Timoteo. Intanto manda subito
Epafrodito, ristabilitosi da una grave malattia, a causa della quale ha
rischiato di morire. Dio ha avuto pietà di lui, guarendolo, ma anche di Paolo,
sottraendolo da un aggravio di afflizioni.
Non era in
potere degli apostoli risanare seduta stante le infermità? Non si doveva
rattristare della morte solo chi non aveva speranza alcuna nella risurrezione
dei corpi?
Paolo esorta
i Filippesi a non lasciarsi atterrire dagli avversari e a sopportare le
sofferenze, come fa lui, per amore di Cristo. Soffrire per lui è una gioia, un
dono concesso da Dio per la salvezza dei cristiani. Risalta nella lettera
l’inno a Cristo. Tutti i popoli della Terra devono proclamarlo Signore
dell’universo. Gesù, pur essendo uguale a Dio (contrariamente in 1 Co 15, 27,
dove appare subordinato al Padre), ha rinunciato alla sua natura divina (kenosis)
per venire a vivere insieme agli uomini, divenendo simile a loro, servo tra i
servi di Dio, umiliandosi fino a morire sulla croce. Per questo il Padre lo ha
esaltato e glorificato, attribuendogli la signoria degli esseri celesti,
terrestri e sotterranei, proclamandolo padrone dell’universo. Per mezzo della
fede in Cristo, l’uomo è ora giustificato. Il cristiano, parola di Paolo, non
appartiene più al mondo in cui vive, ma al Regno di Dio.
Lucio Apulo Daunio
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